lunedì 17 settembre 2012

7° Festival Natura della Gallura







7° Festival Natura della Gallura
A.S.CU.NA.S. Onlus
Associazione per gli Studi Culturali e Naturalistici della Sardegna, Telti


“Loro della Sardegna”
Il percorso del filo

La metafora del filo risulta il tema più antico trattato sulla natura dell’universo e la creazione della vita sul nostro pianeta ed è per questo che merita essere oggetto dell’ultimo festival di questa serie sulla Natura della Gallura.
Il filo unisce, rafforza, determina la continuità, l’importanza della relazione,  simboleggia l’amore per tutto ciò che ci circonda e se tutto è collegato, si introduce l’intenzione del lavoro che ci impegnerà in futuro: quello di conoscere e preservare i Maestri ancora in vita di tutta la Sardegna.

Come eventi rappresentativi per la valorizzazione della cultura naturalistica in Gallura l’A.S.CU.NA.S. di Telti per l’anno 2012 ha scelto:


AGGIUS

23 settembre      Chiesa di S. Pietro di Ruda, Valle della Luna


Laboratorio L’Albero Padre
Passeggiata per la raccolta delle erbe tintorie                                                   

Gabriella Lutzu, esperta del Laboratorio di tessitura di Aggius “L’Albero Padre”, ha organizzato una passeggiata svoltasi nella mattinata, che esplora buona parte della Valle della Luna, passando anche per il nuraghe Izzana, e offre la possibilità di raccogliere le erbe tintorie utilizzate nella lezione di tintura naturale del pomeriggio.

















Gabriella Lutzu nel suo laboratorio produce opere di sua fantasia utilizzando i colori da lei ottenuti col metodo a caldo, con aggiunta di componenti chimici per la mordenzatura del filato usato, riproposto nel pomeriggio nel laboratorio di tintura con piante tintorie.

Il filo delle arti e mestieri, a sinistra nel manifesto, è di lino ed è stato filato dalla signora Assuntina Arceri, che ci ha lasciato nel secolo scorso insieme con la filatura del lino.

Lezione aperta del Corso di Botanica (A.S.CU.NA.S. Onlus):  
laboratorio di tintura naturale
a cura di Gabriella Lutzu (MEOC, Aggius) e Francesco Cassitta (A.S.CU.NA.S. Onlus, Telti)

Al termine della passeggiata si apre il contorno verdeggiante della chiesa campestre di S. Pietro di Ruda ed i prati si offrono come luogo di sosta accogliente prima del pranzo, dopo il quale si tiene la lezione aperta di tintura naturale del Corso di Botanica organizzato durante l’anno dall’A.S.CU.NA.S. Onlus di Telti.
Ricette ed accorgimenti dall’esperienza di Gabriella Lutzu, collaboratrice del Museo MEOC di Aggius, e del Dott. Francesco Cassitta di Telti, vengono dispensati durante le fasi di lavoro, l’esperienza va dall’estrazione del colore ai processi di tintura a caldo.
Filati già tinti mostrano colori dolci e vivaci, dall’arancio carico al violetto, dai verdi e bruni ai gialli accesi, tipici del metodo utilizzato, sempre abbinati alle piante tintorie utilizzate.









Feldenkrais                                                                                                 
a cura di Fatima Congiu, Nuoro

Sempre accolti dal morbido prato abbiamo lavorato sul filo invisibile della vita: il respiro.
Fatima Congiu di Nuoro ci ha guidato alla consapevolezza dei fili del corpo: l’insegnante di Feldenkrais, una rieducazione neuromotoria, ci ha proposto una sessione di C.A.M. (Conoscersi Attraverso il Movimento).
La dolcezza dei movimenti e l’attenzione al respiro nel corpo hanno magicamente riportato il rilassamento, la scioltezza dei movimenti e la lucidità mentale per godere degli eventi del pomeriggio.



Teo-Filosofia                                                                                                                 
a cura di Srinivas e Padema Tripathi (Ass. Cult. Italiaindiana Onlus), Telti

L’introduzione al percorso del filo è stata regalata dal Maestro indiano e Teo-filosofo Srinivas Tripathi dell’Ass. Cult. Italiaindiana Onlus di Telti, riflettendo sui fili necessari alla vita, dai materiali e visibili fino agli invisibili quali quelli che ci legano all’ambiente: non solo i frutti o l’ombra, ma anche l’ossigeno indispensabile alla respirazione è donato dalle piante!
L’unione di tanti fili genera un filo più forte.
Interessante il pensiero che riguarda l’interno del corpo, alle due energie provenienti da noi, una terza ci raggiunge dall’alto, Ingla, Pingla e Susumna come vengono chiamate nello Yoga, dandoci la possibilità di connettere tanti altri fili quali i nervi, il sistema sanguigno ecc., così come per disegnare un fiore sul tessuto e dargli bellezza serve un terzo filo oltre la trama e l’ordito.










Poesia Improvvisata                                                                                                 
a cura di Antonio Maria Giua, Tempio

Un contributo in forma di video ci ha restituito l’idea di come si intessono le parole nella poesia improvvisata in un lavoro di uno degli ultimi Poeti Improvvisatori della Gallura: Antonio Maria Giua, residente a Tempio, ma originario della zona di Telti.
Rime alternate e baciate ne sono la caratteristica e la complessità, ormai difficili da tramandare, sia perché il gallurese non viene più parlato, sia per la mancanza di maestri: uno dei fili che si sta per spezzare con la nostra cultura tradizionale.













Canto Sardo a Chitarra                                                                                             
a cura di Giovanni Puggioni e Maria Erminia Satta, Tempio

Il celebre musicista, direttore di più cori nella sua zona, Giovanni Puggioni e la moglie Maria Erminia Satta hanno illustrato il filo tra le parole e la musica del Canto a Chitarra nella tradizione sarda.
Con un articolato lavoro di spiegazioni e raccolta di pezzi che fanno parte della storia della musica sarda, la chiesa di S. Pietro di Ruda si è trasformata nella location ideale per il sapore profondo che i testi, la voce e la chitarra ci hanno offerto.
Fili negli strumenti, nei testi, nelle interpretazioni preziose, cerchi di balli, cuori e canti, il tutto fino a tarda sera con una ripresa dopo il filo dell’arte contemporanea.










Arte Contemporanea                                                                                               
a cura di Susanna Sabiu, San Giovanni Suergiu (CI)

Acqua, Vento e Terra, argomenti che sono stati oggetto di tutti i nostri festival precedenti e di cui abbiamo voluto chiudere il cerchio o tirare il filo che li unisce, sono anche gli elementi di “Abbabentuterra”, la performance mix-media dell'artista Susanna Sabiu, sul filo e col filo.
Un lavoro che lega la maestria di Chiara Vigo, ispiratrice di questo festival e depositaria della tradizione del filo che ci lega all’acqua - quello del Bisso Marino, il più antico, centrale nel manifesto a simboleggiare i Maestri - all’esperienza artistica di Maria Lai e Pinuccio Sciola.
Audio, video e uso del corpo su una mappa tessuta, svolta sulla scena nel compimento dell’azione, sono gli elementi espressivi.













Omaggio a Maria Lai

“Legarsi alla montagna”

I nostri soci hanno potuto assistere alla proiezione del video sull’opera comunitaria, ideata da Maria Lai per il Comune di Ulassai, che ha visto un intero paese legarsi alla montagna che lo sovrasta con un nastro azzurro lungo 26 km., simile a quello che sventolava in una giornata piovosa di una antica leggenda del luogo.
Nella storia, è stato seguire quel nastro a salvare una bambina dal crollo della caverna in cui si era riparata.
Opera nell’opera, emblematica è l’imprevista e necessaria realizzazione di questo nastro - quello dell’arte contemporanea, a destra sul manifesto - prodotto da pezze azzurre smembrate in striscie da tutto il paese che, con la stessa partecipazione unitaria, portò a compimento l’opera “Legarsi alla montagna”.
Un sentito ringraziamento a Maria Lai per averci restituito un filo così emozionante.



















Si segnala per il filo della tessitura il Meoc Museo Etnografico di Aggius,
info:                 www.museomeoc.com      tel. 079-621029




mercoledì 18 gennaio 2012

medicina popolare sarda

Appunti sulla medicina popolare sarda

tra le pieghe di antichi saperi



E la comunità diventava una "farmacia collettiva" a base di erbe officinali


di Nando Cossu





Per meglio capire il sistema della medicina popolare in Sardegna è opportuno premettere una

breve descrizione della struttura economica e sociale all'interno della quale questo sistema operava.

Fino ai primi anni cinquanta, agricoltura e allevamento erano le attività principali delle nostre

comunità e arrivavano a comprendere anche 1'80% della popolazione attiva.

Le altre attività, che pure erano presenti, avevano un carattere complementare e operavano soprattutto in funzione dell'agricoltura e dell'allevamento. In questo tipo di comunità il bene più prezioso era il grano, sia per la sua funzione insostituibile nell'ambito dell'alimentazione quotidiana, sia come mercé di scambio per l'acquisizione di altri prodotti o servizi.



Scapolare da portare al collo a contatto con la carne per la prevenzione delle malattie.


La povertà era una condizione diffusa e in molti casi si trattava di vera e propria indigenza, tanto che non erano poche le famiglie per le quali avere anche solo il pane sicuro, a costo di grandi sacrifici, era una fortuna. Capitava anche che quei fortunati che avevano il pane talvolta non avessero di che accompagnarlo e allora si arrangiavano raccogliendo in compagna quanto l'ambiente circostante offriva. La povertà diffusa esigeva l'impegno di tutti, maschi e femmine, piccoli e grandi, per mettere assieme il necessario per la sopravvivenza della famiglia, per questo succedeva che talvolta si cominciasse a lavorare fin dall'età di 6-7 anni. In questa economia di sussistenza non era certamente marginale il contributo delle donne, mandate a custodire il bestiame fin da bambine, oppure a fare le domestiche appena adolescenti e al lavoro dei campi, senza contare tutte le fatiche per accudire la famiglia. Il primo contesto che rifletteva questa condizione di vita era l'abitazione.

Costruite in mattoni crudi o in pietra, le case erano in genere piccole, il tetto in canniciata e i

pavimenti in terra battuta, costituita in realtà da un impasto di argilla, paglia e sterco di bue. Mancavano l'acqua potabile e la corrente elettrica, l'unica fonte di riscaldamento era il camino, chi poteva aveva anche qualche braciere.

Non disponendo di acqua, tanto meno acqua calda, l'igiene quotidiana della persona non andava al di là di una rinfrescata al viso, il bagno (dentro una bagnarola) era qualcosa di riservato alle donne più fortunate, che lo facevano in genere una volta al mese, mentre per i maschi l'occasione per qualche bagno si presentava d'estate, al fiume, in mare, in casa con l'acqua del pozzo. I servizi per fare i bisogni spesso erano all'aperto in un angolo appartato del cortile, le famiglie più fortunate disponevano di una casupola con un pozzo nero, sempre nel cortile.

Ma la povertà poteva leggersi facilmente anche sulle stesse persone: la gente vestiva in modo essenziale, difficilmente si poteva disporre di capi di vestiario come il cappotto e la maggior parte della povera gente si copriva con su saccu, una sorta di coperta doppia di orbace usata anche come giaciglio.

L'uso quotidiano delle scarpe era un lusso di pochi, quando non servivano per andare in campagna a lavorare, ma c'era chi si recava scalzo anche al lavoro.

Infine, anche l'alimentazione risentiva di questa condizione di indigenza. I pasti potevano essere da tré a quattro al giorno: colazione, spuntino di metà mattina, pranzo e cena.

Però, ciò che bisogna prendere in considerazione non è tanto il numero dei pasti quanto quel che si consumava. Nell'alimentazione della povera gente, dopo il pane gli alimenti più usuali erano i legumi e le patate durante la settimana, mentre la domenica chi poteva preparava un po' di pasta. Il consumo della carne difficilmente andava oltre una volta la settimana in quantità, spesso, piuttosto ridotta.

A questo proposito, tra le famiglie più povere era diffusa l'abitudine di cibarsi della carne di quei capi di bestiame (cavalli e buoi soprattutto) che morivano in seguito al carbonchio e che venivano abbandonati in campagna.



Sia. Pinza in lentischio con cui si fermava il sangue nelle vene incise per il salasso.



Chiave maschio inferro utilizzata per cauterizzare la pustola del carbonchio.


In un contesto siffatto, gli individui vivevano in un rapporto quotidiano con la precarietà, che

investiva tutti gli aspetti della loro esistenza, fino alla sfera dell'intelletto, del pensiero, stimolando

la ricerca di un conforto e di una giustificazione a quella condizione.

E per molti, per quasi tutti, la ragione di quella condizione era da riporre nella imperscrutabile volontà divina, a cui venivano fatti risalire anche lo stato di salute e di malattia, intendendo la prima come un dono che Dio faceva agli uomini, secondo criteri per loro inaccessibili, e la seconda come una punizione divina per colpe non espiate secondo le modalità della giustizia terrena. Queste argomentazioni di carattere religioso costituiscono un aspetto importante del sostrato ideologico su cui poggiava anche il sapere medico del mondo agropastorale.

Proprio nella religione venivano poste le ragioni ultime di tutto ciò che non fosse spiegabile con gli strumenti culturali di cui la società agropastorale disponeva, comprendendo fra questi strumenti anche le diverse ideologie magiche.

Ma vi era, nel sapere medico tradizionale, anche una dimensione empirica, che era in ultima analisi quella con la quale si aveva più dimestichezza, per il rapporto stretto che essa aveva proprio con le vicende della vita quotidiana. Così, per quanto riguarda le cause delle malattie, al di là della ragione ultima di esse riposta nella religione, vi erano diversi fattori scatenanti la cui connotazione era esclusivamente empirica.

Una delle cause di malattia, fra le più diffuse e pericolose, era su scallentamentu, che consisteva in un eccesso di riscaldamento del corpo, dovuto ad uno sforzo fisico eccessivo, una lunga corsa ecc.. Era pericoloso esporsi a lungo al sole nel mese di marzo, mentre nel corso dell'estate il sole esercitava sull'organismo un'azione benefica in quanto attraverso il sudore provocato dal caldo veniva espulsa s'aqua maba, cioè quelle che noi oggi chiamiamo le tossine.

Anche l'aria, quando perdeva la sua purezza, era considerata veicolo di malattie diverse, persino molto gravi, così come malattie poteva portare la tramontana a causa dei suoi rigori e i venti d'Africa per evidenti ragioni opposte, mentre il maestrale era considerato apportatore di salute.

In questa dimensione empirica del sapere medico popolare, il fattore che più di tutti incide sulle condizioni fisiche di un individuo è il sangue.

Sotto questo profilo, tutti gli individui erano compresi in tré grandi categorie: gli individui di sangue forte, quelli di sangue debole e quelli di sangue dolce; l'appartenenza a questa o quella categoria era cosa che si poteva distinguere già dall'infanzia o dalla prima adolescenza.

Secondo il pensiero medico popolare, il sangue ha bisogno dopo un certo periodo di liberarsi di

tutte le impurità che in esso si formano per via di un'alimentazione sbagliata, l'aria malsana, le tensioni.

Questo bisogno di espulsione delle impurità costituisce il concetto di sfogo del sangue, e una manifestazione concreta di questo sfogo era costituito dai foruncoli. Questi, grazie alla loro funzione di sfogo, preservavano l'organismo da mali peggiori.

Dopo i lavori della stagione estiva, vi era la consuetudine di rinfrescare il sangue, attraverso l'assunzione di un purgante (il più delle volte si usava il sale inglese), per depurarlo e prevenire malattie pericolose. Era molto diffusa anche la consuetudine di cambiare il sangue una volta l'anno, attraverso il salasso, praticato da qualche flebotomo oppure attraverso l'applicazione di sanguisughe.




Olio di grano appena prodotto, visibile sull 'incudine e

sul dito.


Sulla base delle cose appena dette, si può capire meglio la dinamica della pratica medica nel mondo agropastorale.

Intanto va detto subito che la gestione della malattia avveniva secondo un meccanismo complesso e ricco di opportunità in favore del malato. Tale meccanismo si manifesta già fin dal momento della diagnosi che, ad un osservatore superficiale sembrerebbe lasciata al caso, mentre in realtà si dispone di diversi livelli di effettuazione, dallo stesso individuo malato fino al guaritore più esperto, a seconda delle esperienze che ciascuna delle figure coinvolte ha maturato.

Il luogo di lavoro, la bottega, la fontana, anche il posto più impensato poteva rivelarsi un'occasione

di incontro con qualcuno che aveva già avuto esperienza di un determinato male e che forniva

la diagnosi al malato o ad un suo parente. Addirittura più ricco di opportunità era il momento

della cura. Quasi sempre i disturbi occasionali di lieve entità venivano curati in famiglia, perché

diffìcilmente in un nucleo familiare mancava qualcuno che avesse conoscenza di quei rimedi praticati per una indigestione, una normale influenza, un foruncolo ecc.. All'interno della famiglia erano in prevalenza le donne a praticare questi interventi.

Quando non si disponeva del rimedio in famiglia, vi era sempre l'opportunità di ricorrere a terze persone, più o meno esperte. E non era necessario mandarle a chiamare o recarsi da loro.

Se in una famiglia c'era qualcuno che stava male e uno dei familiari usciva, incontrava qualcuno a

cui confidava la sua preoccupazione, poteva accadere che questa persona le suggerisse immediatamente chi poteva curare quella determinata malattia. Ancora più facile era ricevere indicazioni sui guaritori nel caso di qualcuno il cui male fosse visibile, come eczemi e altre malattie della pelle. Era rilevante anche il ruolo che amici e vicinato avevano nel fase della ricerca della terapia.

Diffìcilmente si restava indifferenti quando si veniva a sapere di qualche vicino che stava male, così come ci si adoperava di fronte alla malattia che avesse colpito un amico, cercando in ogni contesto consigli e indicazioni che potessero condurre alla terapia.

Nell'ambito della medicina popolare, chiunque avesse una competenza sia pure minima, poteva

al momento opportuno esercitarla, cioè metterla a disposizione della comunità, vestendo per quella circostanza i panni dell'esperto. La considerazione che ne consegue è che la pratica medica

empirica non era appannaggio di un qualche gruppo ristretto di persone, ma era un comportamento

diffuso, non senza una distinzione dei livelli diversi di competenza.

Al di là di coloro che operavano esclusivamente all'interno della famiglia per le piccole patologie, erano presenti nel mondo agropastorale figure a cui la comunità attribuiva un ruolo specifico nell'ambito della pratica medica. Una di queste figure è quella che veniva comunemente chiamata, nelle zone a dialetto campidanese, sa meìga; nei confronti di questa donna esperta si aveva un atteggiamento di grande considerazione, così come si dava una grande importanza al suo operato e talvolta anche alla sua parola. Gli elementi determinanti perché una donna esperta venisse considerata meìga erano: una competenza indiscussa nella cura di qualche malattia particolare (scrofolosi, fuoco di sant'Antonio, emorroidi ecc..), o addirittura malattie ritenute gravi e difficili da curare; il possesso di qualche ricetta esclusiva; una lunga tradizione di famiglia oppure l'opinione diffusa che la competenza provenisse da una qualche forma di rivelazione, attraverso un sogno, un santo, una spiridada; l'esercizio della pratica medica come prassi quotidiana o comunque come fatto molto frequente; un bacino di utenza molto più esteso del paese di residenza; infine sa meìga era l'unica figura, assieme a quella corrispondente maschile (il flebotomo), a cui fosse consentito chiedere compensi anche in denaro.

La gamma delle opportunità, per il malato, non si esauriva con queste due figure (donna esperta e

flebotomo). In una dimensione distinta, e spesso anche come ultima speranza, operava la figura della spiridada o speziada, una figura di guaritrice di cui si diceva che avesse ricevuto i suoi poteri

taumaturgici direttamente dal diavolo o da qualche altro essere malefico.

Ritengo opportuno, una volta descritte le figure degli operatori, riprendere quel concetto della

medicina popolare come comportamento diffuso, per vedere come questa caratteristica si presentasse anche nella acquisizione degli elementi necessari per la cura e che nel mio lavoro ho definito "la farmacia collettiva".

Nell'ambito della gestione della malattia, particolarmente delicato e importante era il momento della acquisizione di tutto un complesso di erbe ed elementi necessari per l'effettuazione della terapia. Per giungere ad una risoluzione adeguata di questo aspetto, all'intemo della comunità ciascuno si ritagliava un proprio ruolo, in modo del tutto autonomo, sulla base delle opportunità che il proprio modo di vivere gli prospettava.

Così, il falegname si preoccupava di conservare il legno tarlato con cui le mamme curavano le irritazioni nei neonati. Il sacrista, che saliva ogni giorno le scale del campanile, raccoglieva le piume della stria, notoriamente frequentatrice di quegli ambienti, con cui veniva curato chiunque restasse strìau, cioè colpito dal male provocato da questo rapace notturno.

Il fabbro costruiva gli anelli per la sciatica e l'emicrania, e preparava l'olio di grano per la cura

degli eczemi e altre malattie della pelle. Presso le famiglie dei pastori si trovava la ricotta salata,

confezionata anche per scopi terapeutici. E chi altro non poteva, cercava di inserirsi in questa

farmacia collettiva conservando la pelle di una biscia trovata in campagna, offrendosi di masticare

la ruta, nonostante i danni che provocava ai denti, per curare con l'alito impregnato dei principi

di quest'erba una malattia degli occhi.

L'elenco potrebbe essere molto lungo. A tutto questo bisogna aggiungere il fatto che negli orti e nei cortili erano presenti piante ed erbe officinali di cui poteva usufruire chiunque ne avesse avuto bisogno. Anche la chiesa era stata coinvolta in questa sorta di farmacia collettiva: da essa la comunità traeva l'incenso e i fiori benedetti per le fumigazioni terapeutiche contro lo spavento, l'acqua benedetta per la cura del malocchio, il rito della lettura del vangelo ancora contro lo spavento.




Sa brunia


Accanto alle erbe, c'era tutta una serie di materiali d'uso quotidiano, apparentemente inutili,

che venivano conservati perché all'occorrenza potevano diventare oggetti coadiuvanti in qualche

terapia. Valga per tutti l'esempio della cartastraccia, che in genere veniva conservata (e non buttata) perché unta col sego o con l'olio d'oliva caldi veniva impiegata nella cura delle malattie da raffreddamento, soprattutto nei bambini, applicandola al petto. In definitiva, nell'ambito della pratica medica empirica anche l'oggetto più impensato poteva diventare strumento di terapia, perché un principio costitutivo della prassi quotidiana nella gestione della malattia era quello di fare ricorso, adattandolo quando necessario, a tutto ciò che l'ambiente circostante offriva, intendendo con questa espressione non solo l'ambiente naturale, ma anche quello umano.


Le foto sono tratte dal Libro "La medicina popolare in Sardegna"

di Nando Cossu - Carlo Delfino Editore